Bambino senza tempo, o vita da Principe

a cura di Ciro Andreotti

Quando volevano muovermi delle critiche, per giustificare gli scarsi incassi dei miei film, i giornalisti scrivevano o mi dicevano:

Ovvio che sia andato male: pare un film di Totò’.

Anche da questo si capisce come l’uomo prima dell’attore non fosse giudicato per quel che era, ovvero un grande professionista e una delle ultime vere maschere della commedia dell’arte”.

A parlare Nino Manfredi che a metà degli anni ’80, nel corso di un’intervista rilasciata ai microfoni RAI, cercava di giustificare come il principe De Curtis non fosse troppo amato dai critici; veloci nell’additarlo come un fenomeno di cassetta e autore all’infinito dello stesso personaggio. Letteralmente una maschera che Goffredo Fofi, saggista e autore di tre testi dedicati a Totò, definì come l’ultima della commedia dell’arte e che difficilmente saremo mai capaci di scollarci di dosso perché figlia della guerra e di quella fame che in giovane età aveva colpito proprio il futuro Principe.

Proprio in merito al titolo nobiliare va ricordato come Antonio De Curtis nacque con il cognome della madre – la diciassettenne Anna Clemente – e trascorse gli anni di scuola fra classi ripetute e retrocessioni scolastiche. Esatto, avete letto bene; la scarsa voglia di chinarsi sui libri portarono il piccolo Antonio a essere retrocesso dalla quarta alla terza elementare. La cosa però fu accolta dal giovane senza particolari ansie mentre i bersagli della sua vivacità diventarono tutti: dai passanti, ai maestri, dai compagni di classe fino alla gente comune incontrata per le strade del Rione Sanità dov’era nato, cresciuto e dove era normale vederlo scorrazzare, potendo permettersi, nel corso dell’infanzia di osservare il mondo adulto senza correre particolari inconvenienti se non per quel soprannome “ ‘o spione ” che l’accompagnò per tutta l’adolescenza. Antonio divenne fin da subito osservatore compulsivo di tic, manie, modi di dire, atteggiamenti. Fu l’arrivo del primo dopo guerra e la conseguente fine dell’esperienza militare e ancor prima di quella seminariale, che in eredità gli aveva lasciato una deviazione del setto nasale, frutto di una ‘collisione’ con un pugno di un precettore, che per lui iniziarono i primi problemi: capire cosa fare della propria vita e quindi l’inevitabile ricerca di un lavoro che contro la volontà materna significò fare della propria capacità istrionica una professione. Fu a Roma, dove si era trasferito, assieme alla madre e al padre, il Marchese Giuseppe De Curtis che finalmente aveva sposato Anna e che aveva conseguentemente lasciato al figlio legittimo il proprio cognome, che dalle tavole dei palchi del varietà che il giovane Antonio fece conoscenza con il comico napoletano Gustavo De Marco, marionetta umana del teatro dell’arte e dal quale apprese gran parte di quel repertorio fisico che in seguito lo rese celebre.

Antonio iniziò a provare movenze, scatti del collo in avanti e di lato, iniziando a replicare quei movimenti visti eseguire da De Marco e aggiungendovi quelli inventati da lui nel corso delle estenuanti prove alle quali si sottoponeva, sempre davanti a numerosi specchi disposti a circondarlo, una tecnica impiegata anche dal comico Genovese Gilberto Govi, e quindi a smentire quel che del Principe s’è sempre pensato, ovvero che fosse un semplice improvvisatore. La genesi di Totò è quindi un’iniziale e perfetta imitazione, una parodia portata all’esasperazione su palchi di teatri sconfinati e poi su fino al cinema. Una maschera che deve a De Marco la propria nascita e un’imitazione che De Curtis, seppe unire a un abbigliamento che, come nel caso di Buster Keaton e Chaplin, lo accompagnò per tutta la carriera. Un abbigliamento semplice da radunare per chi in quei tempi faticava nel mettere insieme pranzo e cena: una bombetta, un frac liso, esattamente come le scarpe, oltre a giochi fisici provati e riprovati e di battute ai margini del nonsense. Fu solo quando raggiunse la celebrità che il Principe restituì a De Marco l’involontaria paternità del suo personaggio, anche se va detto che Totò ha letteralmente vissuto di vita propria, cancellando il tempo e di fatto sfuggendo al suo stesso inventore al punto che anche in assenza di quella seconda pelle: la bombetta, il frac liso, le scarpe di due numeri più grandi, la mimica, le movenze e gli sberleffi, ormai per tutti, anche quando l’uomo si manifestava in pubblico in doppio petto e accompagnato dall’immancabile sigaretta all’angolo della bocca, veniva riconosciuto con quel nome di quattro lettere.

Un nome diventato una mania fra gli anni ‘50 e ‘60 del cinema di casa nostra anche a causa di innumerevoli problemi con il fisco che letteralmente costrinsero il Principe a una sovraesposizione mediatica necessaria per poter pagare tasse arretrate e quindi creando quel mito dell’attore semplice, di cassetta e più presente del banale prezzemolo.

Una scena de I Tartassati, pellicola del 1959, con Aldo Fabrizi, Louis de Funès e qui in scena Elena Fabrizi, sorella di Aldo diventata nota grazie alla collaborazione con Carlo Verdone

Scusi sa, ma io sarei il Principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfiro-genito Gagliardi de Curtis di Bisanzio

Ma soprattutto lei chi è?

Chi mi rappresenta?

Da lei non accetto nemmeno che mi si avvicini, si figuri le critiche”

A citare a memoria un titolo nobiliare e la frase a chiosa, un uomo abbigliato esattamente come Totò, quindi con un frac liso, la bombetta e le scarpe di due misure più grandi. Un uomo però ben poco incline allo scherzo e che solo per pura coincidenza ha le apparenze della maschera che l’ha reso celebre. Quel titolo è citato esattamente come un mantra in faccia a un regista colpevole di aver domandato forse più precisione nelle scene, non sapendo della precisione messa da De Curtis in ogni sua pellicola, se si tratti d’improvvisazione o di talento, a voi decidere. Di certo un regista che forse non conosceva il titolo del Principe per intero. Di certo un regista che non l’avrebbe ricordato nemmeno dopo questo sfogo.

Convinto sostenitore che essere un Principe fosse una delle poche cose che riteneva veramente sua; De Curtis, venne, a causa di quest’ossessione per la nobiltà, ostracizzato per lunghi anni dalla TV di stato dopo che inneggiò al Re, nel corso della sua prima apparizione a Il Musichiere. Il tutto mantenendo all’oscuro delle proprie intenzioni il presentatore e amico, Mario Riva. Un titolo, quello di Principe, che giunse sia a seguito dell’adozione da parte del Marchese Francesco Maria Gagliardi Focas, ma per il quale De Curtis aveva lungamente lottato a suon di carte bollate, con l’aggiunta d’incessanti richieste commissionate ad araldisti e studiosi di genealogia di vario tipo, al grido di: “Se prosegue a pagarci, noi continuiamo ad allungargli il titolo nobiliare” e che arrivò solamente alla soglia dei cinquant’anni, non cogliendolo minimamente impreparato. Al punto che la casa di via Buozzi a Roma, ove risiedeva, già recava lo stemma di famiglia in bella mostra lungo le proprie pareti. D’altro canto il titolo era tornato nella sua casa naturale, esattamente dov’era giusto che fosse.

Franca Faldini, l’ultima moglie del Principe e più giovane di lui di oltre trent’anni, ha sempre sostenuto come Totò rimanesse al di fuori della loro vita privata. Una vita costellata da drammi personali e solcata da un’inclinazione dell’uomo nei confronti di una depressione sempre in agguato ma che al tempo stesso non gli aveva impedito, a lui persona di scarsa cultura mai nascosta, di vergare centinaia di pagine di poesie e canzoni. Una depressione causata da eventi tragici come la morte prematura del figlio Massenzio, nato di otto mesi, nonostante il sorriso che a fatica, in quei momenti in cui si rinchiudeva a strimpellare un piano e a fissare il vuoto, riusciva a strappargli l’altra figlia, Liliana, grazie ai travestimenti messi in atto con i suoi costumi di scena: la solita bombetta, il frac liso e le scarpe di dimensioni giganti. Liliana, così chiamata in ricordo di Liliana Castagnola, suo primo amore e morta sucida.

Una vita quindi costellata da drammi e successi, da fame e da denaro, da grandi scelte filantropiche e da battute entrate nella storia della comicità, oltre che da convinzioni granitiche e distanti dalla bonomia che solitamente il personaggio Totò manifestava nel corso delle sue pellicole e che scherzando il Principe aveva impersonato per una doppia intervista andata in onda per la RAI nel 1963 nel corso della quale affermava che Totò viveva in cucina mentre lui, grato al buffone e da persona per bene, vivesse alle sue spalle, il tutto di fronte alla finta riprovazione di un Lello Bersani che faticava a trattenere le risate.

Cosa ci sia quindi di Totò in De Curtis e viceversa non si può sapere, ma di certo l’uno senza l’altro non avrebbero potuto vivere, anche se una volta che Totò prese il largo all’interno della fantasia popolare lo stesso De Curtis, proprio come disse nel corso di quella splendida intervista, conclusa con la declamazione di ‘A livella, dovette farsi inevitabilmente da parte, marchiato a fuoco da quel bambino del rione sanità che scorrazzava felice anche a più di sessant’anni.

Bambino senza tempo, o vita da Principe